Il conflitto nella Striscia di Gaza continua a scuotere l’opinione pubblica con riflessioni, testi pieni di parole e critiche che sono alla costante ricerca di una soluzione pacifica per una questione che sembra non avere più fine. Sorgono moltissimi pensieri che si protraggono nel tempo ed oggi discutiamo proviamo a rispondere a quella che sembra essere la regina di tutte le domande: “che cosa possiamo fare noi?
Attraverso le parole del presidente della fondazione, Gabriele Nissim, ci si è interrogati sulle modalità per porre fine al conflitto armato e su quali siano le responsabilità delle società civili che devono promuovere soluzioni pacifiche: “Qualsiasi soluzione presuppone che si lavori per esperienze di dialogo dal basso. Senza dialogo la pace non ci sarà mai. Si sono costruiti 2 partiti (pro Israele e pro Palestina) sulla scena pubblica – aggiunge – ma le modalità dei due non hanno mai inseguito il dialogo e la pace e mai come oggi si necessiterebbe di avere un movimento che metta insieme chi dei diversi contesti lavora per la pace”.
Manuela Adviri, scrittrice e blogger ha raccontato la propria esperienza di cittadina e attivista israeliana, che dopo gli eventi del 7 ottobre ha deciso di reagire alla rabbia generale impegnandosi nuovamente in prima persona con diversi progetti volti a promuovere la pace tra i due popoli: “l’odio si vince facendo cose, non solo raccontando”.
Giulia Ceccutti dell’Associazione Italiana Amici di Wahat al – Salam Neve Shalom ha poi introdotto l’ambizioso progetto della Comunità Nevé Shalom – Wahat al Salam (Oasi di Pace), un villaggio che sorge a metà tra Tel Aviv e Gerusalemme che da oltre 50 anni ospita 90 famiglie, metà ebree e metà palestinesi, dimostrando che una convivenza equa e democratica tra i popoli è possibile.
Sono seguiti gli interventi degli attuali co-direttori delle istituzioni educative del villaggio, Samah Salaime e Nir Sharon che hanno raccontato del loro impegno per diffondere i temi del dialogo e della convivenza pacifica tramite l’educazione: “il 7 ottobre ha messo alla prova il nostro lavoro – continua Nir Sharon – ma poi abbiamo visto che i bambini sono tornati nelle nostre scuole mandati dalle loro famiglie, desiderosi di affrontare la situazione insieme”. “L’odio si insegna velocemente – aggiunge Samah Salaime – per il dialogo serve tempo”.