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“Unire i puntini” ovvero…come cambia il ruolo del giornalista “esperto” di disabilità (EDITORIALE)

Data di pubblicazione 27 Settembre 2024
Tempo di lettura Lettura 4 minuti
Persone disabili motorie e sensoriali e persone non disabili dietro allo striscione del Disability Pride Torino in occasione dell'edizione 2024

A settembre si sono svolte le Paralimpiadi di Parigi. Con loro, come accade ogni quattro anni, sono tornati centinaia migliaia di articoli e servizi dove a farla da padrone sono spesso rappresentazioni fuorvianti (se non del tutto sbagliate), consapevolmente o inconsapevolmente impregnate di abilismo. Ed è proprio qui che entra prepotentemente in gioco il ruolo dei giornalisti e delle giornaliste esperti ed esperte di disabilità, fondamentale per contribuire a promuovere una rappresentazione il più possibile immune da stereotipi e pregiudizi culturalmente radicati.

Giornalisti e giornaliste esperti ed esperte di disabilità

Innanzitutto occorre rispondere a una domanda: chi sono i giornalisti e le giornaliste esperti ed esperte di disabilità? Volendo semplificare il più possibile le cose, potremmo dire “chi si occupa prevalentemente di questo tema durante la propria attività professionale”. All’interno della categoria, potremmo ancora trovare due sottoinsiemi: i giornalisti e le giornaliste formati e formate “sui banchi di scuola” attraverso l’approfondimento della legislazione, degli studi e delle ricerche degli ultimi decenni (tra cui i ben noti “Disability studies”) e quelli formati “sul campo” grazie all’esperienza acquisita nel tempo attraverso il confronto quotidiano con persone e situazioni.

A dare complessità alla cosa ci pensa un dato di fatto inequivocabile: i giornalisti e le giornaliste esperti ed esperte di disabilità, almeno in Italia e salvo rare eccezioni come il compianto Franco Bomprezzi e pochi altri, sono storicamente tutti e tutte “abili” (e anche tendenzialmente bianchi, maschi ed eterosessuali, ma su questo occorrerebbe aprire un altro capitolo), almeno secondo la costruzione sociale che vede come accettabili ed efficienti (e quindi “normali”) solo quelle determinate caratteristiche fisiche, sensoriali, cognitive e psichiche appartenenti alla maggioranza della popolazione.

Autorappresentazione e autorappresentanza

Il quadro appena descritto, però, contrasta con i ben noti principi di autorappresentazione e autorappresentanza (riassunto in modo discretamente esaustivo dal famoso slogan “nulla su di noi senza di noi” coniato dai movimenti per i diritti che si sono sviluppati in diverse parti del mondo nel corso degli ultimi decenni del ‘900), per secoli escluse dalla narrazione su loro stesse. Questo andazzo è sempre stato evidente soprattutto nel mondo della comunicazione: a rompere definitivamente un meccanismo che, a dire il vero, stava già mostrando in modo inevitabile le proprie crepe sia dal punto di vista dell’approccio che da quello delle competenze, ci hanno pensato i blog e i tanto vituperati social network.

Grazie agli strumenti forniti dalle nuove tecnologie e al conseguente moltiplicarsi dei canali di comunicazione, infatti, centinaia di persone disabili hanno finalmente potuto far sentire la propria voce in prima persona, conquistando visibilità e spazi sempre più ampi nel dibattito pubblico sia come attivisti e attiviste che come operatori e operatrici dell’informazione in senso tradizionale (giornalisti/e, content creator, opinionisti/e…) non solo sul web, ma anche su quotidiani e riviste da cui erano – chi più chi meno – irragionevolmente esclusi ed escluse. I benefici più diretti e immediati sono stati molti: la diffusione di una maggior consapevolezza sulle tematiche legate alla disabilità, uno stimolo al dialogo e al confronto senza precedenti, un’attenzione al linguaggio e alla rappresentazione in grado di far scricchiolare come non mai la cultura abilista che permea dalla notte dei tempi la nostra società.

“Unire i puntini”

Il contesto appena descritto impone una riflessione su come sia cambiato il ruolo del/della giornalista esperto/a di disabilità (soprattutto se “abile”, come il sottoscritto) alla luce delle trasformazioni degli ultimi anni: la necessità di ricollocarsi, infatti, assume un’importanza cruciale al fine di non porsi come ostacolo al cambiamento, bensì esserne ingranaggio ben oliato. La mia esperienza personale e l’osservazione partecipante di (quasi) 15 anni trascorsi a scrivere e parlare di disabilità nelle occasioni più disparate, mi hanno portato a sviluppare una convinzione: dobbiamo smetterla di ergerci a paladini dell’inclusione e unici detentori della verità, come troppo spesso abbiamo fatto alla luce della nostra posizione, delle nostre convinzioni e dei nostri privilegi, ma fare un passo indietro per vestire i panni dei “facilitatori”, facendo rete e promuovendo sinergie che contribuiscano a stimolare e diffondere il dibattito sulla disabilità in modo sempre più capillare e in fasce sempre più ampie della popolazione.

Per dirla in parole semplici, dobbiamo unire i puntini. Oltre a una costante formazione, a una buona dose di ascolto e ad altrettanta autocritica, occorre però qualcosa di più, tre passi avanti in nome dell’autodeterminazione di ognuno e ognuna: una vera e propria “alleanza” (per dirla alla Valentina Tomirotti, ndr) tra persone disabili e non che metta in luce il protagonismo e la narrazione delle prime, senza compromessi né protagonismi ma con tanta voglia di promuovere quel cambiamento culturale di cui abbiamo tutti e tutte bisogno.

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