La disabilità, e più in generale la non conformità, negli ultimi giorni sono entrate (una volta tanto) in modo preponderante sui media generalisti: questa volta per segnalare una vera e propria violenza perpetrata nei confronti di due persone che, per noi di Volonwrite, rappresentano due punti di riferimento importanti verso quella “rivoluzione culturale” che tanto auspichiamo ma che tarda ad arrivare per diversi motivi.
I fatti sono questi: sabato 16 novembre, alla fiera BookCity di Milano, si sarebbe dovuta svolgere la presentazione del nuovo libro di Fabrizio Acanfora “L’Errore – Storia Anomala della Normalità“ (uscito nei giorni scorsi per Luiss University Press). Si sarebbe dovuta svolgere perché, a causa delle barriere architettoniche presenti nella sede prescelta (la Fondazione Ambrosianeum, ndr), una delle moderatrici Valentina Tomirotti non è potuta entrare con conseguente annullamento dell’incontro tra la delusione e lo sconcerto generale; la stessa cosa è valsa per tutte le persone con disabilità che si spostano in carrozzina e che avrebbero voluto partecipare.
Non abbiamo timore a scomodare la parola violenza perché quanto accaduto a BookCity rappresenta un perfetto esempio di cosa significhi vivere in una società normocenterica, che non prevede l’esistenza di chi non è conforme alla maggioranza e ne ostacola attivamente e colpevolmente la partecipazione alla vita culturale; la cosa è ancora più grave perché avvenuta in occasione della presentazione di un libro che ha proprio l’obiettivo di spiegare e scardinare queste dinamiche. Per questo, come attori e attrici di un cambiamento possibile ma anche come responsabili delle resistenze ancora presenti a più livelli, esprimiamo la nostra massima solidarietà a Valentina e Fabrizio sottoscrivendo in toto le loro parole, che riportiamo integralmente qui sotto.
«Milano che corre, che produce, che fa, ma solo se sei abile. Ieri è successo qualcosa di grave e inaccettabile. La presentazione del libro di Fabrizio Acanfora con Irene Falcheris, nell’ambito di BookCity Milano, è stata annullata. Perché? Perché l’evento era stato organizzato in un luogo non accessibile, la Fondazione Ambrosianeum. Organizzare un evento pubblico in uno spazio inaccessibile è già di per sé una discriminazione. Ma farlo per presentare un libro che denuncia proprio i meccanismi di esclusione della “normalità” è un paradosso crudele, uno schiaffo a tutte le persone con disabilità. Mi sono sentita dire le solite scuse abiliste: “Avevamo segnalato la non accessibilità”, “Abbiamo fatto tesoro di questo disguido”. Ma segnalare che un luogo non è accessibile non è una scusa. È una resa. È dire alle persone con disabilità: “Sappiamo che non potete partecipare, ma va bene così.” No, non va bene così. Non è mai accettabile. Intanto, la presentazione è saltata. Io non dovevo essere solo tra il pubblico, ma sul palco, accanto a Fabrizio Acanfora e Irene Facheris. Invece, sono rimasta fuori. E, come spesso accade, mi sono ritrovata ad affrontare anche quel senso di colpa indotto, quel veleno sistemico che ci fa sentire noi il problema, il “peso”. BookCity Milano, una manifestazione che dovrebbe celebrare la cultura, si è dimostrata discriminatoria in ogni fase del processo. Nessuna attenzione alla fruibilità degli eventi: nessuna LIS, nessun sottotitolo, barriere architettoniche ben presenti. E poi, la toppa peggiore del buco: scuse frettolose e abiliste che confermano il modello sistematico del nostro Paese. Non veniamo previsti come persone. Quando scoppiamo a protestare, ci viene chiesto di accettare scuse generiche. E magari, alla fine, ci fanno sentire colpevoli di essere un “peso”. Milano, capitale della cultura? Dell’inclusione? Solo a parole. Ancora una volta, l’accessibilità viene trattata come un’opzione, non come un diritto. Ma per chi vive l’esclusione, l’accessibilità è la differenza tra partecipare e restare fuori. Non si può parlare di inclusione lasciando qualcuno sulla soglia. È ora di cambiare davvero».
Valentina Tomirotti
«Ieri pomeriggio ci sarebbe dovuta essere a BookCity Milano la prima presentazione del mio nuovo libro. Ero emozionato e felice perché del libro ne avrei parlato con Valentina Tomirotti e Irene Facheris, ma qualcosa è andata storta e alla fine abbiamo dovuto cancellare la presentazione, con grande dispiacere per tutte le persone – tante – che erano venute per partecipare all’evento. Ad andare storto è stato che siamo andate a sbattere frontalmente contro un muro che per la maggior parte delle persone è a prima vista invisibile, un vero e proprio quadro culturale che prende il nome di abilismo, e che si manifesta come uno dei modi in cui nella nostra società normocentrica, una parte della popolazione esercita il proprio potere su una minoranza, sulle persone disabilitate. Nello specifico, ieri sera abbiamo deciso di annullare la presentazione perché il luogo in cui era stata programmata non è accessibile a chiunque utilizzi una carrozzina. Spesso pensiamo all’abilismo come alla discriminazione delle persone disabilitate, eppure la cosa è più complessa. L’abilismo in realtà è un vero e proprio sistema culturale e sociale che privilegia la persona non disabilitata come norma ideale, organizzando credenze, comportamenti e ambienti attorno a questa norma e marginalizzando chiunque si discosti da essa. Non è solo discriminazione, ma un modello strutturale che definisce ciò che è “normale” e “valido”, plasmando istituzioni, spazi e relazioni in modo escludente verso chi non rientra nella norma. In altre parole, viviamo in un mondo che non prevede l’esistenza di corpi, menti, sensi e modalità relazionali diversi da quelli di una ideale maggioranza. Questa precisazione è fondamentale per comprendere quanto l’abilismo sia strutturale, quanto sia radicato e appaia invisibile a quella maggioranza che gode del privilegio di non doversene preoccupare quotidianamente, che può decidere di andare ad assistere a un evento senza dover verificare se la sala è accessibile, che può tranquillamente salire su un treno o un aereo, frequentare una lezione, guardare un film, andare al ristorante, insomma, fare le cose che la maggioranza delle persone fa senza nemmeno pensare a questa struttura sottostante che allo stesso tempo, silenziosamente, sta escludendo altre persone. Ed è fondamentale chiamare in causa la cosiddetta maggioranza “abile” proprio perché altrimenti il rischio è di affrontare il problema sempre e solo focalizzandosi su quella parte della popolazione disabilitata, come se la soluzione al problema fosse una responsabilità della persona non conforme all’ideale artificiale di normalità. Come se la sua esistenza fosse il problema. Questa cosa, questo senso di colpa, è emersa anche ieri sera in modo evidente. Valentina ieri si è sentita in colpa per quanto stava accadendo, come se la causa del problema fosse lei e non il sistema che la stava escludendo. E con lei ci siamo sentite in colpa anche io e Irene, colpevoli di aver dovuto annunciare (noi, non l’organizzazione che ha temporeggiato per più di un’ora prima di confermarci che non c’era modo di recuperare una pedana) alle persone presenti che la presentazione era annullata. È una sensazione strisciante che le persone escluse da un sistema normocentrico sperimentano in vari modi ogni volta che la loro esistenza è d’intralcio al “normale” svolgimento della vita sociale della maggioranza. E questo è inammissibile, è disumanizzante. Avere interiorizzato il senso di fastidio che deriva dal doversi occupare del “problema”, del ritrovarsi con una situazione da risolvere perché l’accessibilità è solo una bella parola che ci piace usare, ma che rimane una soluzione isolata legata a situazioni specifiche, un concetto da tirare fuori in modo paternalistico e caritatevole e che aumenta ancora di più la percezione per la persona disabilitata di essere lei il problema, è qualcosa che non dovrebbe accadere, mai. Ieri sera ci siamo andate a schiantare contro questo sistema, abbiamo potuto verificare tutte e tutti (le persone che erano venute ad assistere, io, Valentina e Irene, e anche l’organizzazione dell’evento) quanto quei concetti di cui alcune e alcuni di noi tanto parlano non sono una cosa astratta, ma agiscono sulla vita delle persone, di tutte le persone, non solo di quelle disabilitate. E quanto sia necessario ripensare il nostro modello di società, perché è inammissibile che ancora oggi si organizzino eventi pubblici in spazi inaccessibili. Quanto accaduto ieri è stato grottesco perché si trattava della presentazione di un libro in cui parlo di disabilitazione e in cui una delle relatrici è una persona che usa una carrozzina elettrica, ma avrebbe potuto essere la presentazione di un libro di cucina o di un romanzo. In ogni caso, quell’evento sarebbe stato vietato a chiunque non avesse potuto percorrere la scalinata. Ed è qui la palese manifestazione di quell’esercizio del potere di cui parlavo all’inizio, del fatto che se non rientri in quella normalità tanto apparentemente impercettibile quanto pervasiva, la tua vita dipende dalle decisioni di qualcun altro. Si parla tanto di inclusione (termine che ormai è risaputo non condivido proprio in quanto espressione di un paternalismo inaccettabile), si parla di indipendenza delle persone disabilitate, ma questi discorsi rimangono isolati, sempre relativi a realtà specifiche, a soluzioni di emergenza.
E mi domando se non sia il caso di riflettere su quanto disumano sia togliere ad alcune persone la possibilità di decidere della propria vita, poter scegliere come chiunque altra dove andare, cosa fare, come trascorrere il proprio tempo. Inclusione e accessibilità rimangono concetti legati sempre a un ambito di necessità, di bisogni che non a caso sono malamente definiti “speciali”. Ma le aspirazioni, i desideri, la quotidianità non vi rientrano. Sono davvero amareggiato per quanto è accaduto ieri, e non per la mia presentazione, quanto per il fatto che questa è la quotidianità per tante persone. Persone che vengono invisibilizzate, private della possibilità di partecipare alla vita sociale dalla nostra incapacità di comprendere quanto il sistema nel quale viviamo sia escludente, e quanto la responsabilità di questa esclusione sia collettiva, riguardi tutte, tutti e tutt* in prima persona».
Fabrizio Acanfora